Giorgio Persano
Piazza Vittorio Veneto 9
Torino
24 gennaio – 20 aprile 2002
La macina è tempo e trasformazione. Si compone di ruote sovrapposte in continuo movimento circolare. Un orologio aggancia il tempo liberatosi nello spazio e lo distende senza grumi, spalmato dalle lancette, tra vetro e cornice, con un processo pulito che procede dalla percezione alla quantificazione. La macina, invece, ha a che fare col corpo vero del tempo, con la carne e le ossa della vita che è durata e fine. Perché la macina non fermi il proprio movimento deve essere sempre rifornita di altro corpo e altra materia da triturare sotto il peso della propria mola perché diventi nutrimento per altra carne e altre ossa. Non c’è nulla di pulito in questo procedimento. Contro le asperità del corpo del tempo la macina solca le sue stesse pareti e raschia la pietra della mola. Il suono faticoso del suo movimento produce tutto intorno uno spazio abraso. Dal suono di una macina di pietra nasce l’installazione di Grassino. L’opera si apre attorno al primo vuoto che lo stesso suono produce, perché il corpo del tempo, che è nell’immagine, fugge fino ai limiti dello spazio, come a cercare rifugio nelle porosità delle pareti della macina, finendo col lasciarsi consumare lentamente ad ogni giro, graffio dopo graffio. Ad aprirsi al di là della compressione del vuoto è la foresta. Sulla fredda pelle della selva la pietra traccia la sua striatura. Sul suo disordine di intrecci e chiazze di colore resta impresso un disegno regolare di squame orizzontali che fanno dello spazio tutto intorno un lungo rettile, chiuso a cerchio su se stesso, come il vecchio serpente Oceano sul limitare del mondo. Sembrerebbe che nell’indistinto striato della selva, Grassino voglia raccontare due principi contrapposti, quello dei cervi e quello dei cani, quello della vittima e quello del cacciatore.
I cervi stanno. Disposti in parata come un esercito schierato su un’altura, presentano come vessilli i propri colori, il rosso e il giallo oro. Sono i colori regali che competono per lunga tradizione a questo animale, sono il sangue e la luce, il martirio e la salvezza del Cristo apparso a Sant’Eustachio tra i due rami di corna, in mezzo al buio della selva.
I cani vanno. Corrono in cerca di una preda, non ostentano colori. Si mimetizzano nel profondo verde del bosco. Eppure anche i cani nel loro affannarsi non sembrano andare lontano. Le loro direzioni di corsa si contraddicono, si intrecciano come le corna dei cervi. Il loro fiuto inciampa, imbrigliato da piste diverse.
Cervi e cani hanno la medesima pelle striata del serpente, sono, gli uni e gli altri, corpi da macina. Cervi e cani, però, non produrranno nutrimento né per sé, né per gli altri. Questi cani non berranno il sangue dalla testa mozzata del cervo, come tradizione vuole. Questi cervi non finiranno sulla tavola del banchetto. Perché quello che la pelle del serpente trattiene ormai a stento negli uni e negli altri, come nella foresta intera, è un liquido bianco, denso di morte, un veleno che ha reso latteo e identico lo sguardo dei cervi e quello dei cani. I colori forti e vivaci della foresta sono come il rosso dei funghi velenosi, come il rosso di bacche mature, gonfie, che si aprono di crocchianti ferite sotto la ruota che le preme.
Cani e cervi subiscono nella preparazione della caccia lo stesso trattamento. Anche i cervi infatti venivano addomesticati perché servissero da richiamo per altri cervi ed è in questo che Grassino sembra vedere il vero principio di morte e la violenza dell’immagine sulla selva, la violenza del ritmo regolare, culturale, della macina sulla selva. Quella stessa violenza che vive, non tanto nell’esercizio dell’uccisione, ma nella volontà di fare delle energie naturali un decoro per palazzine di caccia. La morte è più nella cultura dell’arazzo che in quella del fucile. Il diagramma del tessuto e il limite della cornice hanno nei confronti della natura quel potere letale che si denomina pittoresco. È lo stesso potere della cartolina e del poster. Il pittoresco ha in sé i medesimi principi delle sostanze necessarie all’imbalsamazione. E sono proprio dei trofei di caccia quelli che Grassino espone al di là della pelle della foresta. Trofei in cui permane la memoria del disordine nell’incrociarsi delle teste di cervi e daini imbalsamate e annodate le une sulle altre. Sono trofei scuoiati dei propri colori. Resta solo il bianco della ossa, della morte conservata nel museo di scienze naturali. L’uccisione e la morte, nel lavoro di Grassino non è che una raggelante patina culturale: è il trapassare di uno spillo attraverso il corpo del tempo perché gli aspetti della realtà ci vengano offerti come tanti insetti ordinati su un letto di polistirolo.
Elena Volpato